Riporto integralmente l’articolo uscito sull’Osservatore
Romano il 15 giugno 2011 a cura di Sylvie Barnay sulla mostra “Rembrandt et la figure du Christ”, realizzata al Louvre nel 2011.
All’inseguimento del
Volto
Per tutta la vita
l’artista ha cercato di raffigurare il Gesù che rimane in eterno
di Sylvie Barnay
È un enigma che la mostra «Rembrandt et la
figure du Christ» si propone di risolvere lungo il cammino visivo
che fa percorrere ai suoi visitatori. Uno dei quadri del pittore olandese che
raffigurano Cristo è esplicitamente presentato come se fosse stato dipinto «al
naturale» nella lista dei beni che il maestro di Amsterdam possiede.
L’artista protestante ha cercato per tutta
la vita di dipingere il mistero di Dio che si è fatto uomo. La magnifica mostra
che gli dedicano il Louvre, il Philadelphia Museum of Art e il Detroit
Institute of Arts è a tale riguardo eccezionale. La sua forza risiede nella
problematica di partenza: come dipingere Cristo per renderlo contemporaneo
all’uomo del XVII secolo?
Con una rara pedagogia, i curatori della
mostra, Lloy DeWitt, Blaise Ducos e Georges S. Keyes, tengono i visitatori con
il fiato in sospeso. Per Rembrandt il cristianesimo è una visione. Non è uno
sguardo. Quando l’intelligenza pittorica è teologica, raggiunge la bellezza. Il
primo dipinto presentato, I pellegrini di
Emmaus (1629 circa), ci lascia a questo proposito senza parole,
tanto è folgorante la visione che il pittore cerca di cogliere, quella stessa
che fa irruzione nell’ombra quando s’impone all’uomo che vede Gesù. Chi è
quest’uomo che vede Cristo nel momento in cui Lui lo guarda?
Nella più pura tradizione esegetica
medievale, Rembrandt dipinge solo la dissomiglianza, ossia l’impossibilità
umana di raggiungere la somiglianza con il divino. Questa dissomiglianza si
legge nel terrore che segna subito il volto di uno dei due pellegrini che
riconosce Cristo. È su questo volto che scopriamo il volto di Cristo vòlto
verso di lui, come riflesso. L’uomo non è bello quando vede Dio fatto uomo, del
quale tutta la teologia del medioevo, a partire dallo Pseudo-Dionigi, racconta
che può essere rappresentato come un «verme di terra», persino come «un volgare
ubriacone» che sta bevendo «fino a inebriarsi, ad addormentarsi». Il pellegrino
di Emmaus presenta così questo primo volto di Cristo inebetito, forse tornato
appena sobrio, la bisaccia a forma di otre come unica compagna al di sopra
della sua testa nel momento in cui sa di essere conosciuto. È il suo volto.
Rembrandt testimonia di un Dio che rivela l’uomo.
Si capisce che il pittore olandese ha instancabilmente inseguito nel volto degli altri, dei suoi contemporanei, il volto di Cristo. Le numerose incisioni presentate nella mostra, sull’esempio di Cristo che appare agli apostoli del 1656, lasciano immaginare una vita di bozzetti per avvicinarsi al mistero di Dio che si fa uomo per ogni uomo. L’Amsterdam del secolo d’oro, con i suoi ricchi e i suoi poveri, la sua folla variopinta e brulicante, gli fornisce continuamente i modelli.
Rembrandt non ha che un’ossessione:
affrancarsi dalle immagini, dipingere Cristo vivente. Contrariamente a un certo
medioevo che vedeva nell’ebreo il responsabile della morte di Cristo, Rembrandt
vede Cristo prima di tutto nel suo fratello, l’ebreo di Amsterdam. La città,
una delle metropoli europee più fiorenti nel XVII secolo, è anche nota per la
sua tolleranza religiosa, accogliendo sia gli uomini con il cappello di un
ebraismo esiliato dalla Spagna e dal Portogallo sia gli uomini con il turbante
dell’islam turco. È dunque prima di tutto la matrice ebraica del cristianesimo
che il pittore si è proposto di ricordare nella sua visione di un Gesù ebreo,
che assume i tratti familiari e amati dei suoi amici, rabbini o medici della
comunità ebraica di Amsterdam.
È anche del Gesù di ogni
giorno cha ha scelto di fare la sua Bibbia, e non solo del Gesù dell’infanzia,
della passione o della risurrezione delle costruzioni medievali: un Gesù che
parla (Gesù e i suoi discepoli,
1634), un Gesù che predica (La predicazione
di Gesù, 1643 circa), un Gesù che si ferma, si muove e cammina in
mezzo ai suoi e guarisce i malati (Lasciate
che i piccoli vengano a me, 1649 circa). Come sottolinea lo storico
François Boespflug, l’artista traduce così una visione nuova dell’incarnazione:
«egli ha abitato in mezzo a noi».
Rembrandt, Tête du Christ, vers 1648-50, Berlino, Gemäldegalerie |
La visione del pittore sembra anche profetica nel senso che il Gesù che Rembrandt annuncia non è il Gesù di ieri, né il Gesù di domani, non è il Gesù ebreo né il Gesù «che verrà» cristiano, ma il Gesù di ora. Il pittore l’afferma con forza cercando di dipingere un Gesù per sempre. Vent’anni dopo la sua opera giovanile, l’artista esegue così un’opera della maturità che chiama nuovamente I pellegrini di Emmaus (1648), non per tornare al passato ma per fissare in un’immagine il senso che muove tutta la sua opera. Il dipinto della maturità ha quindi in sé quell’«aura» che definisce l’arte profetica, secondo Walter Benjamin, scrittore del XX secolo, che si appresta a uccidere sia il volto di Dio sia il volto dell’uomo. In una strana estraneità, Cristo, attraversando i secoli, sembra così apparire per sempre. Il bagliore livido fa vibrare l’intera opera non senza raggiungere la visione degli artisti medievali che attingevano la loro teoria della genesi delle forme — ciò che fa sì che una forma pittorica si distacchi dalla superficie — persino dalla Fisica di Aristotele.
Il colore ha dunque un ruolo predominante,
tingendo di una freschezza iridescente, mai vista prima, le vesti di Cristo.
Esso è vicino ai modi di pensare l’immagine acheropita, così come la
concepivano ancora gli artisti medievali. È forse anche questa immagine non
fatta da mano umana, un’immagine che farebbe tremare la sua mano di artista,
che Rembrandt ha instancabilmente cercato per tutta la vita.
Nella bottega del pittore, fra la fine degli
anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta del XVII secolo, non è un solo
ritratto, ma tutta una serie di ritratti di Cristo a venire creata dal maestro
e dai suoi allievi. Questi ritratti, per i quali ha sicuramente posato un
modello vivente della comunità ebraica — come rivela il poeta Herman Frederik
Waterloos, contemporaneo di Rembrandt — sono una testimonianza commovente della
pittura all’opera.
Essi presentano un Cristo diverso da tutte
le immagini conosciute del XVII secolo e dei secoli precedenti: un Cristo come
uomo e tanto vicino al XX secolo da poterlo credere di «ora». Il viso è girato,
lo sguardo è levato o abbassato. La luce è improvvisamente fatta volto.
Ancora a suo modo, la serie interroga. Come
in ogni bottega, gli allievi o gli assistenti hanno forse tentato di imitare il
maestro. Molte Teste di Cristo sono state attribuite a Rembrandt e alla sua
scuola. Non solo, ma forse hanno sollevato la questione dell’opera d’arte e
della sua riproduzione in quel secolo.
In seguito, come la mostra illustra
magistralmente, alcuni imitatori del pittore s’impossessano dell’immagine di
Cristo per riprodurla all’infinito. Il ritratto diviene così una copia. Non è
più un’innovazione e perde anche la forza che gli aveva dato vita, simile ad
esempio a quello che dice verso il 1505: Ioannes
Bellinus me pinxit («Bellini mi ha dipinto»). Ebbene, è questa
novità del ritratto che Rembrandt sembra aver instancabilmente voluto,
distinguendosi continuamente dai suoi contemporanei, pur ricercando nei loro
dipinti ciò che poteva autenticare la singolarità della sua pittura.
La sua cultura visiva era immensa.
Collezionava stampe. Il suo Gesù si avvicina così a quello di Albrecht Dürer,
di Lucas de Leyde o di Hendrick Golzius, come mostrano finemente le incisioni
esposte, arricchite da un commento sempre chiaro e perfettamente accessibile al
grande pubblico. Ma è diverso dal Gesù dell’icona.
Impossibile quindi non interrogarsi sul
soffio di genio che produce l’opera quando si è dinanzi a Il Cristo risorto appare a Maria Maddalena
(Noli me tangere), dipinto
nel 1651. Questa tela sembra in effetti il paradigma di un artista che ha
cercato per tutta la vita di strappare il divino al suo cielo per trasferirlo e
situarlo nella realtà della sua epoca. Il suo Cristo sulla Croce (1631) può sostenere il confronto con
quello di maestri barocchi come Jan Lievens o Jacob Backer (la mostra riunisce
per la prima volta questi tre Cristi). Ci fa soffrire. E ci lascia accedere a
un presente di eternità vicino a quello definito sia da Lutero sia da
sant’Agostino in uno dei suoi sermoni: «Che significa? O Dio, o Signore nostro,
come ti chiami? “Mi chiamo ‘è’, disse”. Che significa: Mi chiamo “è”?. “Che
rimango in eterno”».
(©L'Osservatore Romano 15 giugno 2011)